L'organizzazione del lavoro e l'occupazione stagionale nell'industria conserviera in Campania
2.2 ARRIVA LA CAMPAGNA
In estate tutto il territorio si animava. Decine di camion carichi di cassette di pomodori si muovevano in ogni direzione o sostavano davanti a opifici che, chiusi per buona parte dell’anno, riprendevano all’improvviso a sbuffare e a produrre un odore acido provocato dagli scarti delle lavorazioni. I fiumiciattoli che poi andavano ad alimentare il fiume Sarno o alcuni suoi affluenti, assumevano un colore rossastro e trasportavano schiuma e detriti di pomodoro che, secondo alcuni, avrebbero nutrito i pesci alla foce. Ma anche grazie ad altri ancora più pericolosi e variopinti scarichi industriali, tra i quali spiccavano le lavorazioni della pelle nel distretto di Solofra, le acque del fiume, destinato a concludere il suo tragitto nel golfo di Castellammare, sono state trasformate in una vera e propria fogna a cielo aperto, uno dei luoghi più inquinati della Regione.
Nel giro di pochi giorni, centinaia di persone cambiavano provvisoriamente la propria condizione e venivano assunte nelle fabbriche. Per alcuni mesi braccianti, muratori, casalinghe e studenti diventavano operai.
Non feci mai a tempo a provare quest’esperienza, comune a tanti miei coetanei poiché, mentre mi avviavo a compiere i diciassette anni, mio padre e soprattutto mia madre realizzarono il proprio sogno, inseguito a lungo, e ritornammo ad abitare Napoli. Eppure, proprio quell’ultima estate segnò profondamente la mia vita. [...]
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[...] la mia tesi di laurea su L’organizzazione del lavoro e l’occupazione stagionale nell’industria conserviera in Campania e dedicando uno specifico capitolo alle “caratteristiche del processo produttivo”. Precisai come, ancora nel 1983 – ma la cosa è continuata per molti altri anni a seguire – fossimo di fronte a procedure estremamente semplici, svolte in prevalenza manualmente e, quindi, sostanzialmente analoghe a quelle utilizzate per le produzioni domestiche. Da qui l’ampio ricorso a forza lavoro dequalificata, da assumere soltanto nei momenti di punta. Proprio grazie alla sua semplicità e all’ampia diffusione nelle famiglie, ho utilizzato spesso questo esempio nei corsi di formazione per “istruire” i delegati aziendali in merito alla scomposizione in fasi dei processi produttivi. E anche gli esempi sulla attività lavorative e sui profili professionali da adibire alle diverse mansioni risultavano, per tale via, abbastanza semplici e intuitivi. Chi avrebbe, infatti, affidato a un addetto inesperto o privo delle necessarie informazioni tecniche di base, la sterilizzazione di tutta la produzione conserviera per l’inverno? Ma ogni volta mi sentivo in dovere di precisare che questa divisione dei compiti, in fabbrica come nella vita domestica, non avesse niente di “naturale”, ma dovesse essere rigorosamente ricondotta alla “divisione capitalistica (e sessista) del lavoro”.
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